martedì 26 marzo 2013

Racconti #1

Chi ha detto che a Torino il cielo è sempre grigio forse non aveva idea di quanto le belle giornate, qui, possano essere limpide ed illuminate dal sole, quello basso del nord che taglia le case e le vie come una lama lucente.
E’ un sole che non si concede spesso, è vero; proprio per questo è seducente come una donna che si lascia desiderare.
Chi viene dal sud, come me, sa che prima di tutto dovrà fare i conti con il clima e che dovrà rinunciare alle scontate abitudini di vivere in città come Roma, Napoli o Catania.
Deve misurare sé stesso sui passi veloci cui ti costringe il freddo, deve spingersi a studiare percorsi più brevi per imbucarsi il prima possibile nel luogo caldo che lo attende. E non potrà stare con il naso per aria a rimirare indulgentemente il mondo, perché al di là della sciarpa e della falda del cappello, spesso non si vede altro che altre sciarpe e falde di cappelli.
Fu così che quando arrivai a Torino, in una di queste giornate terse e con la piena visibilità dei monti in fondo a Via Garibaldi, la luce riflessa sul bianco dei palazzi mi sembrò più intensa di quella del sole che batte sui ciottoli chiari di Ischia d’estate.
Forse era il desiderio di sentire il caldo che provavo allora, disteso in costume accanto a Nicola, forse la disperata voglia di non perdere il benefico tepore di ogni singolo raggio che mi ricostruisse dentro la capanna nella pineta.
Il brulicare di negozi e di persone era come la passeggiata in paese, solo con meno colori, come in una foto color seppia.
Allora non eravamo più distanti e ad ogni angolo avrei potuto imbattermi in qualche amico d’infanzia, in una vecchia zia e sentirmi dire che ero cresciuto.
Mi ripetevo come un mantra “Torino, Torino, sono a TO-RI-NO” nel tentativo, adesso direi riuscito, di ambientarmi e di farmi mia questa città ancor prima nel nome. “Dove vivi?”.  Spostarsi è cambiare identità.
Forse a questo non aveva saputo resistere Nicola. Forse non era pronto a partire. Lui non era vissuto in una grande città, Ischia non la viveva solo d’estate e l’inverno, anche se minacciava burrasca e le nuvole si addensavano sull’Epomeo simulando un paesaggio montuoso, non doveva aver lasciato nessuna possibile similitudine con i rigori di una città del nord. La cartolina che mi spedì, con una Mole Antonelliana riprodotta in quattro quadranti in tutte le stagioni, era una croce su sé stesso, anche se riportava una frase che lì per lì avevo ingenuamente trovato positiva “Non ho trovato ancora un piemontese! Il buono di non trovare facilmente una casa in affitto per noi meridionali è che quando la trovi vuol dire che il palazzo è pieno di meridionali e quindi ti pare di stare a casa”.
Non è semplice cambiare nome, i suoni nuovi non sono scontati solo perché è facile pronunciarli, soprattutto quelli di tutti i giorni. Provate a pensare di dover tutto ad un tratto dare delle generalità diverse. Non c’è nulla di spontaneo. Ti ci devi abituare e richiede tempo.
Via Garibaldi, Via Piave, Corso Regina Margherita, Via Po. Le ripenso tutte come erano a Roma, dislocate in quartieri dalle fattezze assai diverse e ora srotolate come tappeti volanti qui, sotto i miei piedi, a chilometri di distanza.
Ero perso in questi pensieri quel giorno, come per le vie nuove. Camminavo per stringere meglio la mano ai torinesi, per entrare in un bar e confondermi come fossi uno straniero che venisse da chissà dove. E in fondo ognuno di noi viene da chissà dove.
Ricordai che la madre di Nicola venne a trovarlo solo un paio di volte. Una volta d’estate e tornò lamentandosi del caldo impossibile e appiccicoso e una volta d’inverno, quando incuriositi dal suo crepitare ad ogni movimento, ci confessò che il suo cappotto non era abbastanza pesante e quindi si era messa degli strati di giornale sotto al vestito. La sera Nicola mi disse che aveva provato vergogna;  patì qual gesto di sua madre più di quanto io potessi immaginare e ci scherzai su, ancora una volta non comprendendone il vero disagio, gli dissi che in fondo era comprensibile e che era già tanto che a Ischia avesse un cappotto di lana.
Svoltai per Via Montebello. A Roma ci ho passato i 5 anni del liceo ed era una via stretta e cupa nei pressi della stazione, defilata come si conviene alla sede di uno dei più frequentati cinema a luci rosse. Camminavo a testa bassa perché sapevo che mi sarei imbattuto in quel pinnacolo, in quel monumento-simbolo che ogni città possiede come emblema. Volevo arrivare lì con gli occhi chiusi. Aprirli solo quando fossi convinto di essere rivolto con la testa al punto più alto, alla stella, e così percorsi circa 150 metri sguardo a terra e un’altra decina retrocedendo a testa in su ad occhi serrati.
Li riaprii e in un turbine di lucciole che si adattavano al giorno la vidi, colto dallo stesso  stupore di quando arrivai la prima volta a Piazza dei Miracoli e nel buio della sera venni investito dal bianco dei due edifici, soffici, come fossero fatti di chiare d’uovo montate a neve adagiate su un prato verde .
“Dunque è da lì”, pensai. Ripresi in mano la cartolina, ormai sgualcita. La osservai attentamente e riguardai la cupola squadrata della mole, immobile in un dei suoi innumerevoli mercoledì mattina. Anche se era pieno inverno, il cielo che le si stagliava dietro era quello del quadrante in basso a sinistra: scure nuvole rade in un azzurro stentato d’autunno, segno evidente dell’acclimatarsi del tempo.
“Sono venuto qui per te, lo sai?” e non sapevo se lo avevo detto pensando a Nicola o alla Mole stessa che ora mi stava addosso con tutto il suo portato esoterico, la sua mistica forma in bilico tra ebraismo, cristianesimo e buddismo, e le sue vicissitudine alterne, ultima tra tutte questa sua mise en scene fantastica e drammatica del cinema, come una balena che avesse ingoiato non solo Geppetto e Pinocchio ma tutte le favole del mondo. Quando visitammo insieme il museo, come sempre, io lo vidi con i miei occhi semplici e privi del portato doloroso che non mi sono mai reso conto fino a che punto accompagnava Nicola. Ci vidi un museo e basta.
Ma io non voglio saperlo cosa c’è davvero dentro, oggi mi basta vederla da fuori perché ho paura che si trasformi in una macchina del tempo che mi riporti da Nicola, lui, che si era fatto sue le aspirazioni e i sogni di ogni singolo frammento cinematografico contenuto in  quel ventre rosso, delatore dei trucchi che hanno animato le pellicole sulle quali fantasticavamo da ragazzi.
Solo quell’entusiasmo avrebbe potuto portarlo fin qui.
Restai ad osservare l’imponenza di quella dama secca dall’ampia gonna di un grigio laconico, a cui mancavano solo le esili braccia dalle mani appuntite per animarsi e tirarmi a sé come un novello Ann Darrow nelle braccia di un KingKong contemporaneo, uscito dalla fantasia di Tim Burton.
Mi percorse un brivido. Cosa stavo per fare? Cosa avrei voluto fare? Distruggerla? Ridurla in cenere? Minarla come lei aveva minato la testa di Nicola? Aveva senso vederla come il simulacro di tutto il male che lo aveva avvolto portandolo alla pazzia? Non ero piuttosto io a febbricitare di una sua influenza? A delirare un contagio inesistente?
Mi allontanai, straniero a me stesso, portandomi dietro quel carico inesploso da anni di cui avevo ritrovato la spoletta e ora l’avevo tirata e sentivo scendermi sulle guance una lava calda, potente e rabbiosa conquistava il naso e mi assediava la gola. Mi sedetti sfinito sui gradini di una chiesa e piansi via quel lutto una volta per tutte. Finalmente.


posted by: grazia

venerdì 15 marzo 2013

1.2.3.PROVA...FFF..FFF...ZE'..ZE'

Non ne sono tanto convinta ma pare che le cose sulle quali si punta molto non riescano e quelle invece alle quali non daresti due lire diventino le migliori imprese della nostra vita.
Hai visto mai.
No, in effetti non ho mai visto...
Piuttosto ho visto solo che in entrambe i casi, che mi sia impegnata al 100% o al 15%, non sono riuscita a concludere granchè.
Al limite posso dare una chance al "puro caso".
Ecco, la casualità con una buona percentuale di fortuna, ha fatto si che producessi qualcosa di buono.
Il che è come dire che, non essendo proprio Gastone il cugino di Paperino, ciò è accaduto di rado e sono in attesa che ripassi il treno per il terno.
Nonostante tutto, posso tranquillizzare i presenti, sono arrivata a 44 anni senza nemmeno accorgermene.
Per farmene una ragione, per convincermi cioè del fatto che l'impegno che ho messo nelle cose non sia stato in buona parte tempo perso, ho deciso che il bello delle cose è inseguirle e non raggiungerle.
Non è consolarsi con l'aglietto; è una salda teoria, fondante. Almeno per me.
Certo, anche raggiungerle, direte voi....ovvio.
Ma chi non ha raggiunto almeno una percentuale accettabile, diciamo anche solo passabile, di obiettivi che si era posto?
Pensateci bene, rifate un conto e metteteci tutto, anche quello che sembra scontato, e vedrete che non siete agli ultimi posti.
E anche il fatto di poter ancora stare in pista per quelli non raggiunti è già un obiettivo non da poco.
Comunque. Se c'è chi vede la vita come una montagna da scalare e guadagnarsi un posticino sulla vetta per poi passare il tempo a contemplare il panorama (quale contropartirta del culo) la mia personale idea è che anche io vedo la vita come una montagna, solo che ho deciso di rimanere in valle, dove per me c'è un clima decisamente migliore.
E mi avvio verso il mare (dove naturalmente resterò in riva ed eviterò di buttarmi nella burrasca).
Tanto poi, anche se non ti muovi, sono il mare e la montagna che vengono a te.
E se ti becca mentre sei lì a farti il mazzo non hai il fiato per affrontarli.

O.
Ma perchè in meno di 5 minuti mi sono messa a pontificare sulla vita?
Dovevo provare a scrivere due tavanate per rompere il ghiaccio e bum...sono diventata un predicatore dedito all'omiletica.
Scritto ho scritto, anche più di due tavanate, rotto ho rotto, anche più del ghiaccio, vedo che l'ora del licenziamento è prossima fratelli.

Se vedemio...


posted by: grazia